Alessandro Mannarino, cantautore romano e romanista, è intervenuto in esclusiva ai microfoni di Centro Suono Sport 101.5 durante la trasmissione Rock&Roma. Queste le sue parole:

Come nascono le sue canzoni?
«Cerco sempre di scrivere nel modo più vero possibile, mi devo emozionare in primis io e poi se si emozionano anche gli altri non posso che essere contento».

Quant’è romanista?
«E’ capitato che dovessi suonare in contemporanea a una partita della Roma. Mi sono messo d’accordo con il back-liner, mi aggiornava sull’andamento della partita. C’è anche chi fa peggio, chi si fa girare lo schermo e vede la partita. Sono romanista da sempre, da quando ho conosciuto il calcio. Sono del ’79, la Roma ha vinto lo Scudetto quando avevo 3-4 anni ma per tutta la mia infanzia sono vissuto a San Basilio e il quartiere era dipinto in giallo e rosso».

Ha mai avuto la tentazione di scrivere una canzone sulla Roma?
«Il calcio è una materia piena di poesia, uno dei fenomeni umani più poetici: è il sogno del povero, è il fazzoletto di terra in cui trovi allegorie come la sorte rappresentata dall’arbitro e il nemico che è l’avversario. Ci sarebbe tanto da scrivere, ma non ho mai pensato a una canzone. Essendo tifoso della Roma non verrebbe comunque una canzone molto allegra…c’è da soffrire».

Dov’era il giorno della finale di Europa League contro il Siviglia?
«Ero a casa con gli amici, c’è poco da dire».

Che canzone dedicherebbe a José Mourinho?
«Il problema che abbiamo noi a Roma con gli allenatori è che idolatriamo e distruggiamo troppo velocemente. Questa è la piazza romana. A me piace la sua personalità e la sua mentalità, il suo gioco però mi annoia un po’. E’ bello andare allo stadio e rendere onore alla fantasia del calcio, a me vincere 1-0 la Coppetta va bene, ma se mi annoi per un anno non è che mi fa festeggiare tanto: sono un artista».

Qual è il suo rapporto con i social?
«Sono nato in un’epoca in cui i social non c’erano. Per me però il privato è privato, vedo ragazzi che sono nati sui social in una generazione dove privato e pubblico si mischiano. Sono scarso sui social, mi spronano a fare di più ma non ne vedo il senso perché voglio separare la vita privata da quella artistica. Il mio profilo è totalmente legato al lavoro, non alla cena con gli amici».

Come nasce l’idea di portare in giro uno spettacolo che si basa sul concetto delle corde?
«Dopo l’ultimo album uscito nel 2021, ricco di suoni elettronici, ho deciso di scrivere un disco con soli strumenti a corde proprio per valorizzare questo rapporto con gli strumenti a corde. E’ un format che ripropongo ogni tot anni. Ci sono due chitarristi più me, un contrabbasso, un violino e due coriste. Devo dire che ha avuto un grande successo, ci saremmo dovuti fermare quest’estate ma i promoter e il pubblico hanno avanzato altre richieste. E’ un concetto che mi piace molto quindi sono contentissimo di riproporlo, escono maggiormente fuori i testi delle canzoni e la voce dell’artista».

Non ha mai nascosto la sua romanità: ha mai pensato potesse essere un limite per la sua carriera artistica?
«Penso che la forza sia delle melodie e di quello che dico. Il romanesco per me è il valore aggiunto, l’italiano è una lunga imposta e colta, dei piani alti. Il dialetto, invece, è la lingua familiare, della terra e degli assenti. Quando devo dire cose sentite, legate a un sentimento forte e che escono dal cuore, uso il dialetto. Le case discografiche non lo vedevano di buonissimo occhio, ma me ne sono sempre fregato. “Sta Zitta” numericamente è una delle mie canzoni più ascoltate, ed è in romanesco, come anche “Me so ‘mbriacato”».

Marcello Spaziani